Il riscaldamento globale è realtà, e le conseguenze sono sempre meglio misurabili. L’opinione pubblica sembra volerlo ignorare. A farne le spese, i Paesi più poveri
“Global warming is here”, “il riscaldamento globale è qui”, queste le parole di James (detto Jim) Hansen, uno dei più grandi climatologi viventi. Non nel 2012: era l’estate del 1988 (il 23 giugno per la precisione). Washington era oppressa da una calura insolita, i termometri registravano da mesi dati record negli Usa. La testimonianza di Hansen alla Commissione ambiente ed energia del Senato degli Stati Uniti passò alla storia perché il climatologo pronunciò parole inequivocabili, abbandonando le precisazioni e i distinguo tipici degli scienziati: “È ora di smettere di chiacchierare e riconoscere che l’evidenza è chiara, questi sono i segni del riscaldamento globale”. Davanti a una buona parte di senatori stupiti, Hansen delineò un quadro preoccupante di quello che poteva essere lo scenario dei prossimi decenni.
A quasi 25 anni di distanza, si può dire che aveva visto giusto. Tutto quanto paventato si è realizzato: le temperature sono aumentate, le ondate di calore sono diventate più frequenti e le precipitazioni più intense, il mare si sta alzando e i ghiacciai stanno fondendo. Anzi, lo stesso Hansen il 4 agosto di quest’anno, in un editoriale sul Washington Post, ha scritto “ero stato ottimista”.
Dai ghiacci arrivano i dati più chiari, impressionanti; non solo i ghiacciai delle montagne un po’ di tutto il mondo (con qualche eccezione); ma il ghiaccio del mare artico, quello delle foto con gli orsi polari: d’estate tende a ritirarsi perché fa più caldo, ma fino ai primi anni 80 l’estensione a metà settembre, quando si raggiunge il minimo, era di 7-8 milioni di chilometri quadrati. Negli ultimi 30 anni il ghiaccio marino ha iniziato d’estate a essere sempre di meno. Le foto dei satelliti lo dimostrano in modo fin troppo preciso, ogni giorno l’immagine del giorno prima, e sul web si trovano animazioni di come il ghiaccio artico d’estate si va facendo sempre più raro. Il minimo raggiunto il 16 settembre 2012 è stato di 3,4 milioni di chilometri quadrati. Si è persa una superficie di almeno 4 milioni di chilometri quadrati, 13 volte la superficie dell’Italia. Se poi si guardano i dati dello spessore del ghiaccio, e quindi della quantità totale di volume di questo, i dati sono ancora peggiori. Di conseguenza, tutti i glaciologi stanno rivendendo le loro previsioni, anticipando la data della prima estate in cui il mare artico sarà libero dai ghiacci che ne hanno caratterizzato il paesaggio negli ultimi 10mila anni. Non più 2070 o 2080, ma 2050, 2040 o forse già 2030 o 2020.
Peggio, molto peggio di quanto si pensava 25 anni fa.
I danni dei cambiamenti climatici. Il riscaldamento globale è qui, e sta già facendo molti danni.
Per i ghiacci dell’Artico i problemi sono nascosti: gli orsi non riusciamo a intervistarli, e non è facile da spiegare nei programmi di prima serata il problema del maggiore riscaldamento del Pianeta che arriverà dalla perdita dei ghiacci che riflettevano la luce solare (il mare invece di radiazione ne assorbe di più). D’altro canto c’è chi vede i benefici: qualche petroliere si sfrega le mani viste le possibili estrazioni in questa zona, gli armatori pensano alle nuove rotte delle navi che accorciano di migliaia di chilometri il collegamento fra il Pacifico e l’Atlantico. I danni e la sofferenza che i cambiamenti climatici stanno già causando sul pianeta sono dovuti al clima che si fa sempre più estremo, con ondate di calore prolungate, precipitazioni più irregolari e intense, con scompensi per le risorse idriche e le attività agricole.
E cominciano ad esserci un po’ di conti, di cifre su quanto ci sta costando il riscaldamento globale. Ne discutono nei convegni gli esperti del settore, si confrontano le metodologie sulle riviste scientifiche, i rapporti del Comitato Onu sul clima fanno ogni 6 anni il riassunto (il prossimo è atteso nel 2013). Anche le ricerche più importanti non riescono a sfondare la cortina di silenzio che grava sugli impatti del clima, di cui raramente si sente parlare sui grandi mezzi di comunicazione.
Il Climate Vulnerability Monitor. È il caso del “Climate Vulnerability Monitor”, realizzato dal Climate Vulnerability Forum dell’ong Dara (daraint.org) impegnata sul fronte degli aiuti umanitari per le popolazioni coinvolte i conflitti, disastri naturali o sistrastri legati ai cambiamenti climatici. Un lavoro a più mani, che ha elaborato i dati di molti studi disponibili sugli impatti economici e sulla mortalità umana legati al riscaldamento globale; in modo dettagliato, per le diverse nazioni del mondo e per diverse tipologie di impatti. Ci sono le stime dei danni che si rilevano oggi, ma anche quelli previsti nel prossimo futuro, nel 2030.
Sono considerate 4 categorie e 22 sottocategorie: disastri ambientali (siccità, alluvioni, tempeste, incendi), modifiche dell’habitat (biodiversità, desertificazione, necessità di riscaldamento e raffreddamento, produttività lavorativa, stabilità del permafrost, aumento del livello del mare, impatti sulle risorse idriche), impatti sulla salute (malattie legate al caldo o al freddo, fame, diarrea, malaria, meningite) nonché impatti sul sistema produttivo (agricoltura, pesca, attività forestali, energia idroelettrica, turismo, trasporti). Oltre agli impatti dei cambiamenti climatici ci sono quelli della “Carbon Economy”: le estrazioni petrolifere e le sabbie bituminose, l’inquinamento dell’aria e delle acque, etc.
Il rapporto mostra come ogni Paese è vulnerabile al cambiamento climatico, e la vulnerabilità deriva dall’alta densità della popolazione, dalla scarsezza di risorse di base, dalle scarse strutture sociali e politiche per organizzare l’adattamento ai cambiamenti.
La stima globale dei danni economici nel 2010 è di circa 1.300 miliardi di dollari, l’1,7% del Pil mondiale. Al 2030 si prevedono 100 milioni di vittime e un danno economico pari al 3,2% del Pil mondiale.
Ma le differenze fra gli Stati sono grandi. I Paesi più poveri, con minori capacità di reagire, di adattarsi alle modifiche del clima, sono e saranno quelli più colpiti, più vulnerabili e che subiranno i danni economici ed umani maggiori. Se si guardano le tabelle colorate che descrivono come saranno colpiti i Paesi della zona tropicale, in Africa e Asia in particolare, i pallini rossi che descrivono danni gravi sono molto frequenti.
Il rapporto elenca anche 50 misure che subito si possono adottare per limitare una gran parte dei danni previsti.
Non mancano le critiche al rapporto, in quanto per molte delle stime che vengono proposte non sono chiare le metodologie di calcolo, i margini di incertezza. È infatti vero che quanto si è visto fino ad oggi è solo una piccola parte di quanto si vedrà in futuro, e in molte zone del Pianeta il “segnale” del cambiamento climatico è meno chiaro che in altre, meno distinguibile dal “rumore di fondo” della naturale variabilità del clima.
Il dado truccato. Il problema è che l’attribuzione dei cambiamenti climatici al singolo evento meteorologico anomalo non è affatto semplice. È colpa dei cambiamenti climatici quanto successo a Monterosso o a Genova nell’autunno 2011? Sono state piogge straordinariamente intense, estreme, ma non è la prima volta. Questa domanda è girate nei media e ha avuto risposte diverse.
Si tratta però di una domanda mal posta: è impossibile dimostrare se e in che modo una singola tempesta, un’ondata di calore o un uragano sia provocato dai cambiamenti climatici. Gli eventi meteorologici dipendono da fattori chiamati “deterministici” (ad esempio le temperature dell’aria o del mare) e da fattori casuali, non riproducibili singolarmente.
Il modo corretto per affrontare il problema non è guardare il singolo caso ma cercare un legame statistico fra il riscaldamento del Pianeta e l’intensificazione delle precipitazioni. Per spiegare questo concetto, Jim Hansen utilizza spesso l’esempio di un dado truccato in modo tale da provocare l’uscita di un numero, ad esempio il sei, doppia del normale. Con un unico lancio, non possiamo dare la colpa al trucco per l’uscita del sei, in quanto avrebbe potuto comunque uscire nel dado non manomesso. Ma con molti lanci, il sei uscirebbe il doppio delle volte, e non avremmo più dubbi.
Analogamente, non si può trarre alcuna conclusione da una singola pioggia eccezionale o da un uragano, perché anche senza il riscaldamento globale ce ne sarebbero state.
Per uscire dal vicolo cieco, gli scienziati fanno un ragionamento più complesso: da un lato individuano a livello fenomenologico un legame fra il riscaldamento dell’atmosfera e l’aumento delle precipitazioni intense o le ondate di calore, dall’altro mostrano come i dati disponibili segnalano che la frequenza di questi eventi estremi sta cambiando. I dati dicono che si cominciano a vedere delle variazioni statistiche sull’intensità di precipitazione, ma il segnale non è omogeneo nello spazio e nel tempo.
Anche il territorio italiano, come mostrano numerosi lavori dell’Isac-Cnr, è caratterizzato da una forte diminuzione del numero di giorni poco piovosi, mentre la frequenza di quelli con precipitazioni intense è in aumento solo in alcune regioni dell’Italia settentrionale. Le tempeste di oggi sono solo un anticipo delle tempeste che stiamo preparando per le generazioni future, per i nostri nipoti, come ha scritto sempre Hansen nel suo ultimo libro “Storm of my grandchildren” (in italiano: “Tempeste”, Edizioni Ambiente).
Il dolore degli altri. Le valutazioni economiche degli impatti dei cambiamenti climatici sono difficili anche perché ci possono essere tanti altri fattori concomitanti che influiscono sui danni che vengono registrati. Il contesto cambia molto l’entità dei danni, e la capacità di adattarsi ad essi per minimizzarli.
Non è quindi infondata l’accusa a molti studi di avere un carattere sensazionalistico, di sacrificare il rigore scientifico per comunicare in modo efficace, magari esagerando i conti di una realtà che non avrebbe bisogno di essere esagerata.
D’altra parte è però vero che il problema c’è, è serio e ancora troppo poco se ne parla nei mezzi di comunicazione. È vero che le politiche per ridurre le emissioni dei gas climalteranti che causano il problema fanno fatica a procedere perché non c’è una sensazione diffusa della gravità della situazione, per esempio sui danni che già si registrano nel Sud del mondo. Molti hanno sentito e visto le immagini delle devastazioni portate dagli uragani negli Stati Uniti, pochi hanno sentito dell’alluvione in Pakistan, che ha causato 20 milioni di sfollati e 3mila morti. Per cui è probabile che anche questa valanga di numeri non riesca a scalfire la corazza con cui evitiamo di confrontarci con i danni che le attività umane stanno causando al clima del Pianeta, e causeranno ancora di più in futuro. “Il dolore degli altri è un dolore a metà”, cantava Fabrizio De Andrè.
Non è detto quindi che stime più precisi degli impatti economici dei cambiamenti climatici possano servire a far capire al pubblico e agli “opinion leader” la gravità della situazione nella sua prospettiva storica, le sue cause profonde, le implicazioni per le future generazioni e le conseguenze etiche, morali, che ci riguardano. È frequente la sottovalutazione del problema, o all’opposto la sua spettacolarizzazione scandalistica, se non la sua rimozione, o almeno l’incapacità di cogliere l’aspetto “sistemico” e non di breve durata delle modifiche al clima portate dall’attuale modello di sviluppo.