L'Europa potrebbe far molto per i produttori di ananas e banane del Sud del mondo. Adottando un Codice di condotta vincolante per le catene della grande distribuzione, ad esempio, contribuirebbe a migliorare le condizioni di lavoro nelle piantagioni. È l'obiettivo della campagna "Make Fruit Fair"
“Limitare l’abuso di potere d’acquisto dei supermercati, causa di gravi conseguenze per i braccianti delle piantagioni, i piccoli produttori e le loro comunità”. È questo l’obiettivo della campagna internazionale “Make Fruit Fair!”, che attraverso una petizione indirizzata alla Commissione europea punta a costringere le grandi catene della distribuzione ad adottare un Codice di condotta. L’iniziativa è promossa da quattro organizzazioni europee (Banana Link, Nazemi, Banafair e Peuples Solidaires), convinte che un mercato sostenibile e solidale di ananas e banane sia possibile oltreché necessario. Stop quindi al mancato rispetto dei diritti umani fondamentali, salari indecenti, pessime condizioni di lavoro e inadeguati standard di sicurezza. Il perché dell’iniziativa è ben riassunto nel rapporto “Concorrenza, la nuova schiavitù”, redatto da Iain Farquhar per conto di Mff, che dipinge l’evoluzione del meccanismo di concorrenza all’interno della grande distribuzione, specialmente dei supermercati. Evoluzione caratterizzata, secondo il report, da un generale impoverimento delle economie agricole, da una progressiva omologazione alimentare e, sempre più rilevante, da un sostanziale assolutismo dei grandi gruppi dinanzi agli stessi stati nazionali. Su questo fronte, l’Europa, dove circa il 60% dei generi alimentari viene acquistato presso cinque grandi catene distributive, è ferma. Scorrendo il documento è possibile registrare i continui fallimenti di legislazioni disomogenee incapaci di arginare “l’abuso di potere” dei supermercati. “La concorrenza -si legge- assicura ai consumatori il diritto di farsi servire da schiavi”. Tra le multinazionali coinvolte -di fatto- nella distorta “Competition law”, cui è chiamata a rispondere l’Ue, vi è senza dubbio Chiquita. L’azienda -che fattura circa 3 miliardi di dollari all’anno, occupa 21mila persone ed è presente in più di 70 Paesi, sarà chiamata a breve ad affrontare un processo per rispondere del ruolo rivestito nell’affare relativo ad occulti pagamenti e sostegni forniti a squadroni della morte (“death squads”) in Colombia. Secondo lo studio legale Cohen Milstein che tutela le vittime del gruppo terroristico Auc (Unità di autodifesa colombiane), il contributo che Chiquita avrebbe garantito ad Auc sarebbe stato “prolungato, costante e sostanziale”. “Complicità nelle atrocità commesse dai gruppi paramilitari” che, grazie a una decisione del giudice Kenneth Marra del Southern District of Florida, presa la scorsa settimana (27 marzo 2012), sarà giudicata anche secondo la giurisdizione colombiana. Secondo Marco Simons, di Earthrights, si tratta di un passaggio fondamentale in quanto “i querelanti sono in attesa da un decennio e più, e questo è un ulteriore passo nella direzione giusta per poter andare dinanzi alla corte”. I fatti contestati risalgono agli anni tra il 1997 e il 2004, quando l'azienda famosa per il "bollino blu", per sua stessa ammissione, avrebbe barattato la pacificazione delle piantagioni in cambio di denaro, munizioni e cortese accoglienza presso propri porti di carichi d’armi.