Tra il 2011 e il 2012 la produzione globale di carne ha premuto il pedale del freno. Dinamica non irrilevante se si pensa che dal 2001 al 2010 è aumentata del 20%. Sebbene le cifre risultino tutt’altro che contenute, il trend dell’ultimo anno è opposto rispetto a quello riferito al 2010. Fase in cui la produzione globale ha toccato quota 297 milioni di tonnellate, più 0,8 per cento, con una previsione pari a 302 milioni entro la fine di quest’anno.
Lo scrivono Danielle Nierenberg -direttrice del progetto Pianeta- e Laura Reynolds all’interno di un rapporto “Disease and Drought Curb Meat Production and Consumption”, a cura del New Worldwatch Institute. Identica traiettoria ha seguito il consumo di carne, in lieve calo nel 2011. Dai 42,5 chilogrammi per persona del 2010, ai 42,3 del 2011. Media che tradisce il forte squilibrio che ancora esiste tra i paesi cosiddetti industrializzati, le economie emergenti -o emerse da tempo- e i Paesi più in difficoltà. 32,3 erano i chilogrammi di carne consumati da un cittadino medio di un Paese “in via di sviluppo” (developing countries) contro i 78,9 kg degli abitanti degli “industrialized countries”. Davanti a tutti, il maiale. Sia per produzione (109 milioni di tonnellate) che per consumo: entrambe a quota 37 per cento del totale nel 2011. Primato che tiene il comando ma entra anch’esso in lievissimo declino. Meno 0,8 per cento dal 2010, a fronte però dell’aumento -poco più pronunciato- del pollame (3%). Ed è indicativo anche il luogo di produzione, oggetto di uno spostamento definito “drammatico” dagli autori del rapporto.
I Paesi affermati continuano a consumare molto ma parallelamente spostano i centri produttivi negli stessi Paesi che faticano a raggiungere la media. Un dato su tutti: il Nord America nel 2000 produceva 13 milioni di tonnellate di carne bovina. Dieci anni più tardi, la cifra è scesa a 200.000 tonnellate. Tant’è, tra siccità e logiche speculative, i prezzi sono schizzati alle stelle e la produzione s’è -in minima parte- modulata per difetto. E non è un caso che alla base di molteplici focolai di patologie zoonotiche vi sia l’allevamento intensivo -che corrisponde al 72% dei casi per quel che riguarda il “prodotto” pollame, il 43% di uova, 55% quando si tratta di maiale, a livello di produzione mondiale. Fattore che ha portato la curatrice del rapporto, Danielle Nierenberg, a rivendicare ancora una volta la necessità del mantenimento degli animali in ambienti salubri con terreni fertili, cercando di riavvicinare sempre più il prodotto al territorio di provenienza, riducendola fortemente nel caso della carne, con un occhio di riguardo alla salute e all’ambiente. Ingredienti che i sostenitori dell’allevamento intensivo hanno, sino ad oggi, leggermente ignorato.