Chi vuole avviare un’azienda agricola si scontra con la realtà: il prezzo dei campi è altissimo. E anche l’affitto sta diventando un’opzione impraticabile
Prendete un giovane appena laureato che invece di un lavoro precario e mal pagato vuole fare il contadino. Non ha terra da ereditare, dal momento che la sua famiglia ha abbandonato la campagna da tre generazioni. Decide allora di acquistarne qualche ettaro, ma si accorge che la terra in Italia costa tantissimo. La media nazionale è di 18.000 euro, ma nella Pianura Padana, ad esempio, il prezzo medio raggiunge i 35-45.000 euro per ettaro. Negli ultimi dieci anni, il valore medio di un ettaro di terreno agricolo è aumentato del 22%, con punte del 28% per i vigneti e 25% per i seminativi.
Non potendo acquistare, il nostro futuro contadino pensa all’affitto. In Italia 4,5 i milioni di ettari di superficie agricola utilizzata (Sau), pari al 36% del totale -12,8 milioni nel 2010- vengono dati in locazione: anche in questo caso, però, le cose non sembrano andare meglio. L’Istituto nazionale di economia agraria (www.inea.it) segnala infatti che anche i prezzi medi di affitto stiano aumentando, e che esiste un’enorme variabilità legata alla tipologia di terreno, e alla sua collocazione e dimensione. Con l’aumento dei canoni di affitto, si assiste a una diminuzione media della durata dei contratti di locazione. Da un lato, ciò è frutto degli alti costi di acquisto, dall’altro alle forti oscillazioni e ai rialzi dei prezzi sui mercati agricoli. La domanda di materie prime agricole per la produzione energetica (biomasse), ad esempio, ha determinato un aumento della richiesta di superfici agricole da destinare a queste specifiche coltivazioni. Come conseguenza, il mercato fondiario nel Nord Italia ha registrato nel 2010 una vera e propria bolla speculativa sulle quotazioni dei canoni. Nella provincia di Cremona, ad esempio, Coldiretti ha calcolato che il business del biogas abbia portato i proprietari delle centrali a offrire fino a 1.800 euro al mese per un ettaro di terreno agricolo: un prezzo assolutamente fuori dalla portata di un agricoltore tradizionale.
C’è poi un altro aspetto: ottenere prestiti e riuscire a pagarli, per un imprenditore agricolo è un sfida sempre più grande. Dal 2001 ad oggi, spiega Coldiretti, il numero delle aziende del settore agricolo e agroalimentare in sofferenza nel far fronte al pagamento di mutui è aumentata di un terzo, e contestualmente si è “fatta sempre più drammatica la stretta creditizia che fa venire meno la possibilità di garantire liquidità”. Per ultimo, il nostro giovane contadino deve fare i conti con le statistiche, che dicono che negli ultimi dieci anni il tasso di mortalità delle aziende con meno di 20 ettari a disposizione è stato di circa il 65%, e che si è verificato un processo di concentrazione della proprietà terriera: oggi l’1% delle aziende agricole in Italia controlla il 30% della terra.
La terra vale, lo Stato svende. Il mercato privato della terra per il nostro potenziale contadino è pieno di ostacoli. Un’altra opzione è quindi quella di rivolgersi allo Stato e agli enti territoriali. I dati Istat, su dati relativi a 16 delle 20 Regioni italiane, affermano che gli enti pubblici sono proprietari (diretti e attraverso forme di gestione collettiva come gli usi civici) di 714.498 ettari, ovvero dell’8% circa del totale della superficie agricola utilizzata nelle 16 Regione. Purtroppo per il giovane contadino, parte di queste terre finirà in vendita. Infatti, con il varo del Decreto legge 1/2012 del 24 gennaio -conosciuto come “Decreto sulle liberalizzazioni”- il governo di Mario Monti ha spianato la strada alla vendita sistematica dei terreni agricoli e a vocazione agricola di proprietà dello Stato e degli enti pubblici. La misura disciplinata all’articolo 66, “Dismissione di terreni demaniali agricoli e a vocazione agricola”, chiarisce che l’obiettivo primario di queste vendite è quello di fare cassa, contribuendo alla riduzione del debito pubblico del Paese. Al momento nessun ministero ha fornito stime certe sul numero di ettari dei terreni che si prevede di vendere e sulla dimensione finanziaria di questa manovra. Coldiretti stima 338mila ettari, dalla vendita dei quali lo Stato e gli enti pubblici potrebbero incassare 6 miliardi di euro. Assieme all’obiettivo finanziario, però, la misura prevede il sostegno all’imprenditorialità agricola giovanile, stabilendo che “è riconosciuto il diritto di prelazione ai giovani imprenditori agricoli”.
Purtroppo, la misura non sembra rispondere in modo efficace alla necessità di garantire l’accesso alla terra ai giovani agricoltori: questi, infatti, dovrebbero farsi carico di costi troppo ingenti per acquistare i terreni, finendo per indebitarsi con il risultato che una misura di risanamento pubblico andrebbe a peggiore l’indebitamento privato, decisamente più oneroso del primo dal punto di vista degli interessi. Il rischio, quindi, è che alla fine questa misura finisca per avvantaggiare soltanto le grandi imprese -che hanno i capitali- e le banche -che possono prestare i soldi-, favorendo ulteriormente il processo di concentrazione della proprietà nelle mani di soggetti finanziari per i quali la terra sarebbe semplicemente un asset da far fruttare.
Per quanto riguarda il debito pubblico, quello italiano ammonta a circa 1.900 miliardi di euro: se prendiamo per buone le stime della Coldiretti, 6 miliardi rappresenterebbero una goccia nel mare del debito. In realtà, non è possibile escludere che la manovra riguardi maggiori estensioni di terreni, fino alla totale dismissione del patrimonio fondiario agricolo pubblico. Non a caso, la Consulta nazionale della proprietà collettiva (http://usicivici.unitn.it/consulta/home.html) ha ricordato al governo che i beni demaniali soggetti ad uso civico sono inalienabili, affermando che le realtà collettive sul territorio nazionale si estendono per più di 1.103.000 ettari, ovvero il 4,5% della Sau.
Vendere beni immobili, inoltre, non è nemmeno il modo più efficiente per recuperare risorse finanziarie: secondo documenti prodotti anche dal Dipartimento del Tesoro del ministero dell’Economia, la soluzione migliore per una riduzione del debito nel lungo periodo è l’aumento della redditività del patrimonio, e non la sua vendita.
Il Decreto liberalizzazioni ha, per lo meno, introdotto dei miglioramenti rispetto alla misura contenuta nel maxiemendamento alla Legge di Stabilità del 2011. Ad esempio, prevedendo l’estensione da 5 a 20 anni del vincolo sulla destinazione d’uso agricola dei terreni, in modo da contrastare la speculazione edilizia. Di fondo, però, la vendita del terreno sancisce la fine del controllo pubblico sullo stesso, e se per venti anni sarà possibile vincolarne l’uso, una volta scaduto il periodo quella terra sarà destinata a scopi guidati da interessi privati e non più pubblici. Il Decreto, inoltre, finisce per rendere stabile una misura una tantum, prevedendo che entro il 30 giugno di ogni anno il ministero delle Politiche agricole, alimentari e forestali individui i terreni agricoli e a vocazione agricola da vendere. Considerando entrambi gli aspetti, efficacia finanziaria della manovra e la promozione dell’imprenditoria agricola giovanile, forse la concessione -e non la vendita- sarebbe il modo più efficace per favorire l’accesso alla terra. “La chiave -afferma Leonardo Gallico, esperto di questioni di terra e collaboratore di Aiab- sta nell’uso della terra e non nella sua proprietà”.
Riprendiamoci la terra. Il nostro giovane neo-laureato e futuro piccolo agricoltore sembra non avere vie di uscita e dover rinunciare al suo progetto di produrre cibo (magari sano, ecologicamente e socialmente sostenibile).
In realtà non tutto è perduto: di fronte a un mercato che non funziona, e a uno Stato latitante in materia di politiche pubbliche, negli ultimi anni il mondo dell’economia solidale ha cominciato a riflettere sul problema dell’accesso alla terra. I progetti di sostegno a filiere agricole locali portati avanti dai gruppi di acquisto solidali e dalle esperienze di Community Supported Agriculture (ovvero di agricoltura sostenuta dalle comunità locali) si pongono il problema di rafforzare un’agricoltura periurbana che sviluppi e consolidi i sistemi locali del cibo. In questa direzione va la proposta avanzata e sostenuta a diverso titolo da Aiab (www.aiab.it), Banca popolare Etica (www.bancaetica.com), Mag2 (www.mag2.it), Scret (Supporto e connessione reti territoriali, scret.it) e Sefea (Società europea della finanza etica e alternativa) per l’istituzione di un “Fondo per la terra”. L’idea nasce dall’esperienza di Terre de Liens (Terra di legami, vedi Ae 119), un’organizzazione nata in Francia nel 2003 con l’obiettivo di sviluppare strumenti finanziari di raccolta fondi per favorire l’accesso alla terra per i piccoli contadini e promuovere un’agricoltura sostenibile. “L’obiettivo -afferma Giacomo Pinaffo di Sefea- è quello di togliere la terra dalle logiche di mercato, a partire da criteri condivisi tra tutti i soggetti che sostengono finanziariamente l’iniziativa”. Lo strumento è in fase di elaborazione: grazie a una borsa di studio finanziata dalla fondazione culturale di Banca Etica, è stata avviata una ricerca per “tracciare i confini giuridici, tecnici, economico-finanziari e di governance di uno strumento finanziario dedicato alla raccolta di denaro per l’acquisto di terreni […], per produrre cibo in modo sano e connesso con il sistema di consumo vicinale”. Se le modalità concrete per attuare il progetto sono ancora in fase di definizione, gli obiettivi sono però chiarissimi. “Quello che vorremmo riuscire a fare -racconta Giuseppe Vergani di Scret- è costituire un soggetto che sia in grado di intervenire in situazioni di rischio, sottraendo terreni agricoli al pericolo della cementificazione, e sia capace di promuovere una progettualità agricola a favore del consumo sostenibile delle città”.
L’azionariato diffuso, che ha consentito a Terre de Liens di raccogliere 15 milioni di euro di capitale da 5mila sottoscrittori pubblici e privati, vuole incentivare le comunità a sostenere lo sviluppo agricolo non solo attraverso il consumo, ma anche attraverso l’investimento diretto.
Infine, “la ricerca in corso -afferma Barbara Aiolfi della della cooperativa Mag2- ha anche l’obiettivo di mappare i terreni demaniali, per capire come e dove intervenire con progetti di produzione biologica anche in situazioni di gestione collettiva, come nel caso degli usi civici”.
Promuovere un’agricoltura sostenibile. Il nostro giovane contadino può quindi contare su una rete sociale di riferimento, con la quale condividere il proprio progetto di agricoltura sostenibile. Un’altra possibilità di realizzarlo può arrivare dal “prestito sociale”. Ne è un esempio il progetto lanciato da Aiabe promosso attraverso “Prestiamoci.it”, una piattaforma informatica che mette in contatto chi vuole investire e chi ha bisogno di credito incentivando la “disintermediazione” bancaria dei prestiti. “‘Prestiamoci.it’ -racconta Lorenzo Vinci di Aiab- lavora principalmente sul credito al consumo, ma ha deciso di aprire una linea di finanziamento agricolo sottoforma di microcredito. Aiab si è proposta come soggetto promotore e garante, con progetti di agricoltura biologica di successo, come ad esempio il Biodistretto del Cilento (www.biodistretto.it). Essendo uno scambio di denaro tra pari -prosegue Vinci- il progetto poggia su un principio ideale: le persone non sono meccanismi passivi del sistema finanziario, ma agenti attivi di una comunità basata su regole condivise. È uno strumento che permette di innestare meccanismi cooperativi, in una pratica tipica del mondo profit garantendo così la sostenibilità dell’operazione, non solo dal punto di vista economico”. ---
Valli e boschi uniti
Il progetto “Boschi Uniti” nasce dall’esperienza della cooperativa agricola Valli Unite di Costa Vescovato (Al). Per contrastare lo stato di abbandono in cui versano i boschi della zona, è stata costituita una cooperativa agricola per acquistare ettari di bosco da gestire in maniera sostenibile e da trasformare in laboratori di interesse didattico ed educativo. “Al momento sono stati acquistati 11 ettari di bosco -spiega Francesco Nastasi, uno dei 15 soci fondatori della Cooperativa ‘Boschi Uniti’ (www.boschiuniti.it)-. La gestione corretta del bosco è di fondamentale importanza, ad esempio per evitare l’erosione dei suoli. In Italia -prosegue Nastasi- ci sono molte superfici agricole che si stanno rimboscando a causa del loro abbandono. Il bosco è anche una fonte di energia rinnovabile a basso costo dal cui utilizzo sostenibile è possibile ottenere una fonte di reddito stabile nel tempo”. I soci di Boschi Uniti vorrebbero che il loro esempio venisse replicato anche altrove, in modo da contrastare il processo di parcellizzazione e degrado che i boschi subiscono a causa della distribuzione frammentata della proprietà e del totale abbandono.