Un bilancio agricolo sempre più in rosso, aggravato da un conto economico per le importazioni a quota 20 miliardi di dollari l’anno. La produzione annuale di mais in deficit di 10 milioni di tonnellate e 2,5 miliardi di dollari spesi ogni anno per la sua importazione.
Un paradosso chiamato Messico, che acquista dall’estero oltre un terzo del suo mais mentre la maggior parte dei coltivatori di quello stesso prodotto lavorano al di sotto del proprio potenziale per oltre il 50%. Se è un caso che il principale fornitore di risorse agricole risponda al nome Stati Uniti d’America, è un fatto certo che il pesante divario di rendimento potrebbe essere colmato impiegando le tecniche tuttora a disposizione.
Un recupero raggiungibile in tempi rapidi (“relatively quickly”) secondo Antonio Turrent Fernández, Timothy A. Wise e Elise Garvey, estensori -per conto della Global Development And Environment Institute Tufts University di Medford (Usa)- del rapporto “Achieving Mexico’s Maize Potential”. Secondo i ricercatori, la repubblica del Centro-america potrebbe incrementare, in un periodo fissato tra 10 e 15 anni, la propria produzione di mais da 23 a 33 milioni di tonnellate all’anno, annullando il gap sopra riportato. Come? Migliorando le reti di irrigazione: assicurandone la diffusione, ad oggi sostanzialmente preclusa ai piccoli e medi produttori, così come l’efficienza, date le forti perdite lungo i tracciati.
Uno sviluppo sostenibile su piccola e media scala che, sempre secondo i curatori della ricerca, renderebbe inutile e sconsiderato (“unnecessary and ill-considered”) il ricorso a sementi transgeniche. Un punto nell’agenda delle politiche pubbliche che riguarda direttamente la formazione del nuovo governo messicano, in lunga transizione dal luglio di quest’anno, dopo la vittoria del Partido Revolucionario Institucional e del suo candidato Enrique Pena Nieto, offrendo -secondo gli autori di “Achieving Mexico’s Maize Potential”- la possibilità di ricalibrare la bilancia commerciale. Esportatori permettendo.